mercoledì 27 agosto 2008

KHALED HOSSEINI:"LA MIA VOCE PER CHI NON HA VOCE"

Intervista di Luciano Minerva
Ha un’aria tra incuriosita e guardinga Khaled Hosseini quando posa per le foto sotto il cartellone del film in uscita in Italia e concede le interviste sotto l’ala protettiva della produzione americana del film tratto dal suo libro, “Il cacciatore di aquiloni”. Sembra che davanti alle macchine fotografiche e alle telecamere metta una sua controfigura e lui stia lì a guardarsi dall’esterno, come non fosse ancora entrato nella parte dell’autore di successo. Poi, nel corso dell’intervista, quest’atteggiamento si scioglie e si spiega. È come fosse ancora stupito degli eventi della sua vita, di quel binario (è lui a usare questo termine) che da Parigi l’ha portato negli Stati uniti, poi a fare il medico e poi lo scrittore. Con quello che ne è seguito. Consapevole dell’unicità di questa vicenda, è diventato portavoce di chi la voce non ce l’ha, di quei milioni di profughi che la storia dell’Afghanistan (o la storia più vasta che ha al centro l’Afghanistan) ha lasciato senza casa e disperso.
Il suo secondo romanzo, “Mille splendidi soli”, anche più bello e toccante del primo, è nato dal viaggio nel suo Paese natale che Hosseini ha fatto dopo il successo inatteso del suo libro d’esordio. Le voci e le storie che ascolta, raccoglie e trasforma in racconto sono quelle che la cronaca ignora. E parlando con lui è come se anche queste affiorassero.
Lei ha lasciato l’Afghanistan da bambino, poi è diventato scrittore ed è tornato in Afghanistan.

Che effetto le ha fatto questo ritorno nel suo Paese?
Sono tornato in Afghanistan dopo 27 anni. L’ho lasciato a undici anni e sono tornato a trentotto. E mi sono sentito davvero come Amir che dice: “Mi sento un turista nel mio paese”. Anch’io ho provato questa sensazione. 27 anni sono un periodo molto lungo. In quegli anni l’Afghanistan è stato in guerra con i sovietici, ci sono stati gli anni terribili delle lotte tra mujaheddin, i Talebani, l’11 settembre, e così via, cambiamenti enormi, così quando sono tornato, da una parte mi sentivo come Amir nel libro e nel film, nel senso che tornando a casa riconoscevo i quartieri, la gente, la musica. C’è una scena in cui Amir dice “Questo luogo ha lo stesso odore che aveva un tempo”. D’altra parte i luoghi erano cambiati molto e io stesso ero cambiato tanto che sarebbe stupido fingere di essere ancora la persona di un tempo e di fare ancora parte di questo contesto. Mi sono sentito davvero un outsider quando sono tornato in Afghanistan, anche se allo stesso tempo sentivo che stavo tornando a casa. Dunque è stata una sorta di esperienza schizofrenica. Le persone che incontravo a Kabul non mi facevano sentire un estraneo, si sono aperte, hanno chiesto della mia vita, mi hanno accolto bene e non con antagonismo, come mi aspettavo. ma io non ho mai fatto finta di essere parte di questo contesto, perché in realtà non lo sono.
Il passato si aggrappa con gli artigli al presente. Sono 26 anni che sbircio di nascosto in quel vicolo deserto. Il tema del rapporto col passato che è sempre presente nei suoi libri.

Che rapporto c’è tra passato e presente?
In effetti, sono affascinato dall’idea che qualcosa che fai oggi avrà ripercussioni profonde sulla persona che sarai e sulle persone che ti saranno intorno tra venti o trent’anni. È un po’ come lanciare il sasso nell’acqua e osservare i cerchi concentrici che si allargano. Nel Cacciatore di Aquiloni c’è quel momento nel vicolo in cui Amir deve fare una scelta e lui sceglie di scappare via. E per tutta la vita si chiede se con una scelta diversa, forse non solo la sua vita, ma anche la vita di Hassan si sarebbe svolta in modo diverso. Penso che una delle ragioni per cui questo tema mi affascina tanto sia perché parte della mia stessa vita sembra si sia svolta come il risultato di situazioni apparentemente del tutto casuali. Per capire la persona che sono oggi devo tornare indietro di trent’anni, e rivivere cosa è successo per esempio negli anni ‘70, quando mio padre fu trasferito a Parigi per tre anni. Lui faceva il diplomatico e pensavamo di stare lì solo tre anni per poi tornare a Kabul. Ma quando eravamo a Parigi i sovietici invasero l’Afghanistan e improvvisamente la violenza avvolse il paese e dunque noi non potevamo tornare. Così prima andai in Francia, poi negli Stati Uniti, e lìho studiato e sono diventato un medico, poi uno scrittore di romanzi, e adesso sono qui a farmi intervistare da lei. Ma mi chiedo, per esempio, cosa sarei stato se fossi stato a Kabul durante l’invasione sovietica? Probabilmente sarei stato reclutato nell’esercito afgano, avrebbero potuto mandarmi a combattere i mujaheddin, essere ucciso o uccidere qualcuno e la mia vita avrebbe avuto un corso completamente diverso. Sono affascinato da questa idea di come nella vita da un momento all’altro le cose possano cambiare completamente. I binari si incrociano, due treni si trovano a pochissima distanza l’uno dall’altro, ma basta poco perché uno giunga a Parigi e l’altro dalla parte opposta. Mi interessa analizzare il modo in cui gli eventi possano avere effetti a lungo termine.
“Voglio avere indietro la mia storia” dice uno dei suoi personaggi. Appare più volte il tema del rimpianto. Quanto è forte per lei questo tema?

Il rimpianto è il sentimento che prova il personaggio ma c’è qualcosa di più. Io penso che l’aspetto piùimportante sia che questi personaggi non sono perfetti. Sento un trasporto per i personaggi “imperfetti”. Amir, per esempio, è una persona tutt’altro che perfetta. Nonostante ciò, almeno è ciò che mi auguro, il lettore riesce a provare per lui comprensione, solidarietà. Anche se commette azioni riprovevoli, cose obiettivamente terribili, il lettore – credo – continua a provare comprensione per lui come essere umano, desidera che diventi una persona migliore. Penso che sia per la natura imperfetta del personaggio. Per esempio, il padre di Mariam in Mille splendidi soli, rimpiange il fatto di non aver abbracciato sua figlia. Questo perché è un uomo imperfetto. L’idea di personaggi perfetti, di persone senza difetti, non è molto interessante.
Per un attimo ho considerato l’idea di scrivere Il cacciatore di aquiloni dal punto di vista di Hassan, ma lui è talmente intriso di bontà, purezza, integrità, che a 35 anni è ancora esattamente la persona che era a 12. Dunque è una gran persona e probabilmente qualcuno che vorrei avere come amico, ma non ho ritenuto che potesse essere un buon personaggio come personaggio centrale di un romanzo. Per questa ragione ho scelto Amir, e quando questo personaggio commette degli errori e compie determinate azioni, la naturale conseguenza è che se ne pentirà crescendo e ripensandoci razionalmente. Bene, io credo che sia un sentimento umano e universale, credo che lei abbia molti rimpianti nella vita, come me del resto. Tutte le persone che conosciamo hanno fatto cose in passato per cui vorrebbero tanto tornare indietro e cambiarle. Questo fa parte del processo dell’invecchiare, fa parte del processo di vivere e in sostanza del nostro essere umani.
Penso che sia molto umano commettere errori e fare cose di cui poi si ha vergogna, cose di cui in seguito ci si pente. Credo che questo sia un altro aspetto in entrambi i libri che coinvolge il lettore perché il lettore molto probabilmente ha vissuto un’esperienza molto simile e quando ritrova questi aspetti nei miei personaggi, li capisce e ci si immedesima.
“ Se fossi stato il regista di un film indiano sarei uscito correndo a piedi nudi, ma non ero in un film indiano.”

È un pensiero di Amir, ma è una delle tracce che il cinema ha nella sua narrativa. Adesso come vive il fatto che un suo libro sia diventato un film?
Ho una lunga storia d’amore col cinema. Sono cresciuto col cinema quanto con i libri. Fin da piccolo ho visto ogni genere di film Perciò quando da Hollywood mi hanno detto che volevano ricavare un film dal Cacciatore di aquiloni la mia reazione iniziale non è stata di sospetto: “Oh, mi rovinano il romanzo. Semmai non vedevo l’ora di sapere che idee avevano, cosa avrebbero fatto. Il mio approccio alla versione cinematografica è stato diverso da quello della maggior parte degli scrittori, che di solito sono molto protettivi detestano che ci siano cambiamenti nelle loro storie. Ho sempre saputo che il cinema è per sua natura un medium diverso dai libri. So che parti su cui hai lavorato a fondo e amato nella scrittura del libro non saranno nel film ma sapevo anche che il potere delle immagini dei film non può essere a sua volta tradotto in parole. È uno scambio. La mia reazione quando ho visto il film è stata di orgoglio È un film sul mio paese, sulla mia gente, ci sono attori afgani sullo schermo, si usa la lingua dari, musica afgana, Per me e la mia comunità è un momento di spartiacque culturale, non è mai accaduto prima. Poi quando ho visto il film volevo vedere i miei personaggi nel film, volevo riconoscerli. Sapevo che certe cose sarebbero state diverse, ma lo spirito, il viaggio emotivo del romanzo, le emozioni intense volevo fossero conservate e il regista Marc Forster ha fatto un ottimo lavoro e lo stesso film è una bella esperienza emotiva.
Pensa che si riuscirà a vederlo in qualche modo in Afghanistan? Purtroppo il film non sarà distribuito in Afghanistan perché il film e il libro trattano temi che sono seri, rilevanti, importanti, e reali ma che sono ancora argomenti tabù nella società afgana oggi. Non sono sorpreso ma mi dispiace Probabilmente la gente li vedrà in copie pirata di Dvd. Penso che il film avrà lo stesso tipo di reazioni che ha avuto il libro, cioè molti lo ameranno perché riconosceranno i loro problemi, la ,oro cultura le loro tragedie. Ma con il film non sarà lo stesso, non perché le cose che si vedono non sono reali, ma perché sentono che non se ne può parlare. la prospettiva del libro e del film è di affrontare temi di cui non è facile parlare, sono cose che ci dividono, spero che prima o poi ci sia una specie di “prima” del Cacciatore di aquiloni in una sala cinematografica anche in Afghanistan, ma non è una cosa di oggi.
La battaglia degli aquiloni è raccontata molto bene nel film oltre che nel libro. Che rapporto c’è tra il rito della “battaglia degli aquiloni” e il clima che si vive oggi in Afghanistan.Penso si tratti di una gara esattamente come è una gara il football. Si potrebbe sostenere che lo stesso football è una specie di guerra. Ogni forma di competizione può sfociare in una battaglia. Nella tradizione afgana era una sorta di rito di passaggio, una fase nella crescita di un ragazzo in Afghanistan. Un’immagine indelebile della mia infanzia, un’immagine centrale nei miei ricordi dell’Afghanistan sono proprio gli aquiloni, che hanno plasmato i miei giorni, insieme ai miei fratelli, i miei cugini, ciò che facevamo nelle gare in inverno. Non erano solo gli aquiloni, non era solo la gara, ma il senso di cameratismo, l’essere uniti nel gioco. È stato davvero qualcosa di molto speciale. Ma la battaglia degli aquiloni è una tradizione antica, un gioco che si è fatto per tanto tempo e gli Afgani sono dotati di spirito competitivo. Amano il football, amano le battaglie di aquiloni, la boxe, il wrestling. C’è questa tradizione di essere soldati, una sorta di spirito tribale che li spinge a essere competitivi e tenaci. Fa parte del DNA afgano. Io penso che le battaglie di aquiloni riflettano questo spirito.
Sia nel libro che nel film ci sono tracce di sangue in più occasioni. Le tracce di sangue dopo la violenza su Hassan, delle teste di agnello e così via. Ha un qualche significato o è casuale? Non posso dire che le tracce di sangue abbiano un particolare significato. Talvolta c’è un’immagine e si lascia che parli da sola e che le persone si facciano un’idea per conto proprio, che ci sia o no un evidente messaggio da comunicare. Ma è vero che nel film Marc ha introdotto diverse sequenze di sacrifici, le teste di agnello, eccetera… Quello che Hassan fa nel vicolo è sacrificare se stesso. L’idea è quella di sacrificare se stesso per salvare qualcun altro e questo è essenzialmente ciò che accade in quel vicolo. Dunque ci sono delle immagini che hanno a che fare con questo tema, con questa simbologia, ma probabilmente non sono così acuto come lei mi descrive. Ci sono delle cose che possono sembrare intenzionali, ma in realtà molte non lo sono.
Lei è tornato in Afghanistan e ha raccolto molte storie di donne per il suo secondo libro “Mille splendidi soli”. Come è stato possibile arrivare a queste donne e farsi raccontare queste cose così profonde e intime? Le storie che mi sono portato dietro dall’Afghanistan su quello che avevano vissuto le donne penso e spero mi abbiano aiutato a creare un ambiente autentico, credibile e convincente, coerente con ciò che stava accadendo da un punto di vista storico in Afghanistan. Ma in realtà raccontare i personaggi femminili ha significato per me mettermi al loro posto. E mi ci è voluto molto tempo perché sono stato ossessionato per un anno dall’idea di scrivere questo romanzo. Non facevo che pensare al fatto che dovevo mettermi nei panni di queste donne. Dovevo riuscire a immedesimarmi nelle loro vite. Dovevo sentire esattamente cosa significa essere una donna in Afghanistan e dovevo stare dentro di loro e stare nella loro pelle per sapere esattamente come ci si sente. Perché solo così potevo scriverlo. E più facevo tentativi, più mi preoccupavo del fatto che la mia scrittura non suonasse convincente, non autentica, più la scrittura era impacciata. Sono arrivato a un punto in cui mi sembrava veramente inadeguata. Alla fine però sono sempre giunto a soluzioni semplici, anche se molto difficili da trovare. Quando trovi la soluzione dici, ah certo, era così semplice! Per me credo il momento critico, lo spartiacque, è stato quando ho deciso di liberarmi da questa ossessione e di considerare i personaggi semplicemente come delle persone e non come le “donne afgane”. Il che ha significato comprendere di cosa hanno paura, cosa vogliono nella vita, quali sono i loro sogni, le loro speranze, quali le delusioni, le frustrazioni, perché loro sono prima di tutto persone e mi sono reso conto che se capivo il loro cuore, la loro essenza, chi sono veramente come persone, solo allora sarebbero apparse convincenti.
Una volta entrato in sintonia con queste persone , una volta comprese le loro motivazioni, non necessariamente come donne ma come persone, tutto è diventato più semplice e improvvisamente quando ho riletto le pagine non ho più sentito la mia voce venir fuori dalla bocca di queste donne, ma improvvisamente ho sentito che parlavano con la loro voce ed erano diventate indipendenti da me e quello è stato il momento in cui per me il manoscritto è veramente cambiato.
Lei parla degli orfanotrofi in entrambi i libri e ha vissuto l’esperienza dei campi profughi. Che cosa le ha lasciato e come l’ha cambiata questa esperienza?

È qualcosa che ti cambia la vita perché una cosa è leggere di queste cose sui giornali, per esempio che otto milioni di afgani sono stati costretti a vivere all’estero da rigufiai durante la guerra e che così tante persone hanno perso la casa. Una cosa è leggerlo o vederlo al telegiornale, un’altra cosa è andare lì, andare a trovare queste persone, stringere loro la mano, sedersi accanto a loro e ascoltare le loro storie, sentirle raccontare in prima persona. È un’esperienza davvero toccante. Quando sono stato in Afghanistan e ho incontrato i profughi afgani e ho visto persone che erano tornate ma non avevano una casa, non avevano assistenza sanitaria, nessun lavoro, non avevano scuole, e vivevano in assoluta povertà, una delle cose di cui mi sono reso conto e che più mi ha colpito è che queste persone non hanno voce.
Chi parla per questi profughi afgani?
Non voglio dire che quella voce possa essere la mia, in alcun modo, ma mi aiutato a dare una direzione alla mia vita e ho potuto apprezzare l’opportunità che mi era stata data con il fatto che i miei romanzi sono letti da tante persone in tutto il mondo, per cui bene o male molti mi associano all’Afghanistan. Dunque io ho l’opportunità di usare la possibilità di accedere ai media per dare voce a queste persone che non hanno voce. Così in un certo senso presto loro la mia voce. Ci sono milioni di persone in Afghanistan che hanno bisogno di aiuto, che vivono in un paese il cui governo non fornisce neanche i servizi essenziali. Questo mi ha aiutato a formare la mia stessa identità, mi ha dato una direzione, un obiettivo. Per questo mi auguro di continuare a lavorare come portavoce, come difensore dei profughi di tutto il mondo, ma in particolare per i profughi afgani.
In “Mille splendidi soli” parla di un gioco che la piccola Mariam fa con dei sassolini per rappresentare la sua condizione di “bastarda”. Ce ne può parlare?

Entrambi i libri possono essere riassunti come storie di persone salvate dal senso di appartenenza e dall’amore. C’è una terribile solitudine nella vita di Mariam, che vive in una capanna con sua madre, a cui lei sente di non appartenere.
Lei fa questo gioco, usando un ciottolo per ogni fratellastro e sorellastra, che sono i figli legittimi di suo padre, socialmente accettati. Mette tutti i sassolini da una parte e ce n’è uno isolato che sarebbe lei. In effetti lei vive fisicamente lontana da tutti gli altri e si sente emotivamente isolata e estraniata. La cosa interessante per me è stato raccontare la storia di questa persona così sola, il suo semplice bisogno di appartenere a qualcuno, di trovare amicizia, di contare qualcosa nella vita di qualcuno, e fare in modo che i suoi sogni semplici fossero il motore di tutto il romanzo, fino alla fine quando lei può guardarsi indietro e dirsi “anche se sembravo essere una persona irrilevante, alla fine ho fatto qualcosa, ho contato qualcosa per qualcuno”.

Scrivere quei passi mi ha davvero commosso.
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Fonte:Rainews24

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